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Licenziabile chi rifiuta la mascherina

È la sorte toccata a una maestra della scuola d’infanzia, ripetutamente sorpresa tra gli alunni, in aula, senza indossare protezioni per «obiezione di coscienza»

Licenziabile il dipendente che rifiuta di mettere la mascherina a lavoro. È la sorte toccata a una maestra della scuola d’infanzia, ripetutamente sorpresa tra gli alunni, in aula,
senza indossare protezioni per «obiezione di coscienza». Per il tribunale di Trento, la condotta della lavoratrice integra una giusta causa di licenziamento: sotto il profilo
oggettivo perché la mascherina è un dispositivo di protezione individuale (Dpi) e, secondo la cassazione, «il persistente rifiuto di utilizzare i Dpi giustifica il licenziamento»; sotto
il profilo soggettivo perché la lavoratrice ha anteposto all’interesse generale (protezione di alunni, colleghi, famiglie) convinzioni personali (cioè che la mascherina non serva a
proteggere dal Covid) prive di fondamento scientifico.


La questione.

Il ricorso è stato promosso dall’insegnante, raggiunta dal «licenziamento disciplinare» per un preciso addebito: più volte è stata richiamata, perché «durante il servizio non
indossa la mascherina protettiva per le vie terre previste dalle vigenti linee di indirizzo per la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e utenti». Un rifiuto replicato nonostante
gli inviti da parte sia della dirigente che delle colleghe e che avevano procurato anche una sospensione dal servizio in via cautelare. Secondo l’insegnante il licenziamento è
infondato per «insussistenza del fatto contestato». Tra le giustificazioni indica «gravi motivi di salute», legati a difficoltà respiratorie permanenti per pregresso trauma toracico e
contusioni polmonari (senza produrre adeguate certificazioni mediche).

La sentenza.

Il tribunale dà torto alla lavoratrice. Riguardo ai motivi di salute fa presente che la Scuola ha prodotto una nota del «medico competente», secondo cui la ricorrente poteva
svolgere la sua prestazione di insegnante a contatto con i bambini, inclusi quelli portatori di bisogni educativi speciali, con la raccomandazione di «uso regolare della
mascherina tipo FFp2 (senza valvola respiratoria) al posto di quella chirurgica». In secondo luogo, il tribunale evidenzia che, nel corso dell’audizione del procedimento
disciplinare, la lavoratrice ha affermato: «la decisione di non indossare la mascherina non è disobbedienza a regole, ma un’obiezione di coscienza». In terzo luogo, il tribunale
richiama l’obbligatorietà al rispetto dei “Protocolli” sulla sicurezza (che ribadiscono tutti la necessità dell’utilizzo delle mascherine), i quali trovano fondamento giuridico, non solo
nelle valutazioni di un organo tecnico (Comitato Tecnico Scientifico presso la presidenza del consiglio dei ministri), ma anche nella volontà del Legislatore che all’art. 16 del dl n.
18/2020 (convertito dalla legge n. 27/2020) ha prescritto tale rispetto.
Giusta causa di licenziamento.
In conclusione, il tribunale rigetta il ricorso e conferma la risoluzione del rapporto di lavoro: la condotta della lavoratrice «integra la giusta causa di licenziamento» sotto il profilo
oggettivo e sotto quello soggettivo. Oggettivo: la mascherina è considerata dal legislatore un Dpi (art. 16, comma 1, dl n. 18/2020) e la corte di cassazione afferma che il
persistente rifiuto di utilizzare i Dpi giustifica il licenziamento (a mente anche del dlgs n. 81/2008, il Tu sicurezza, che all’art. 20 obbliga i lavoratori a rispettare le norme sulla
sicurezza del datore di lavoro). Soggettivo: la lavoratrice ha anteposto all’interesse generale (degli utenti e dei colleghi della scuola) proprie convinzioni personali senza
fondamento in conoscenze della comunità scientifica.